Condividi questo articolo!
Quando il cuore inizia a battere molto più forte, sappiamo che stiamo vivendo qualcosa di magico.
Un viaggio può regalare emozioni così forti?
Direi proprio di si, e sorvolando sulla bellezza dei luoghi, sono gli incontri che facciamo a rendere unica la nostra esperienza, sono i sorrisi che incrociamo uno dei regali più belli da conservare.
Deborah nel suo viaggio sperimenta la vita locale e si mischia tra la gente, tra le loro abitudini fa in modo che i suoi occhi si arricchiscano di bellezza, la sua mente si riempia di ricordi e il suo cuore si impreziosisca di emozioni.
Il viaggio
Il mio arrivo a Zanzibar è di mattina presto, è quasi l’alba quando scendo dall’aereo e il mio corpo viene avvolto da quel calore intenso e penetrante tipico dell’Africa, provato già nei miei viaggi in Egitto e Capo Verde.
Bastano pochi attimi di attesa in coda per espletare tutta la burocrazia per ottenere il visto, per rendersi conto che qui il tempo sembra essersi fermato, tutto scorre lento “pole pole” che in swahili significa piano piano.
Dopo circa un’ora abbondante sono fuori dall’aeroporto, su un taxi locale che mi porterà a Nungwi nella parte nord di Zanzibar; è l’ora di punta circa le otto del mattino, la strada ovviamente non asfaltata e con grosse buche, è affollata di macchine, di “Dala Dala” pulmini locali di marca cinese, motorini che sfrecciano con a bordo 2, anche 3 persone e carretti.
Sul ciglio strada migliaia di bambini camminano a piedi in direzione della scuola, tutti perfetti nelle loro divise e le bambine tutte rigorosamente con il velo.
Lungo la strada si intravedono alcune Spice Farms in cui la vegetazione è ricca di frutta, spezie e radici usate dalla gente del luogo più che altro per uso medico.
Arrivo a Nungwi dopo circa un’ora, ho prenotato un bungalow sulla spiaggia al Baraja beach.
È inutile dire che quello che colpisce subito è la bellezza del mare con tutte le sue tonalità di azzurro, circondato da una fine sabbia bianca.

La spiaggia in tarda mattinata è gremita di turisti e di ragazzi locali che sono già nel pieno del loro lavoro, alcuni vendono frutta, oggetti di artigianato e altri propongono escursioni.
Loro sono i Beach boys tutti con due nomi, il loro vero nome e poi quello che usano per farsi ricordare dai turisti: c’è Santo, Marco Polo, Leonardo, Picasso, tutti giovani ragazzi che parlano almeno due lingue, di solito inglese e un italiano quasi perfetto.
Si fermano volentieri a parlare con me, ovviamente il loro primo obiettivo è quello di “venderti” un’escursione ma poi capisco che gli piace anche stare a parlare, in modo da perfezionare il loro italiano e io, facendo loro un sacco di domande, ho modo di saziare la mia conoscenza.
Sono tutti ragazzi volenterosi, alcuni mi dicono che hanno famiglia nei villaggi vicini e che tra poco quando inizierà la stagione delle piogge e non ci saranno più turisti, andranno ad aiutare i loro genitori a zappare la terra, i più fortunati invece potranno andare a perfezionare le lingue.
Uno di loro mi chiede in regalo un libro che stavo leggendo, vuole crearsi una rete internet per farsi conoscere dai turisti.
Tra una chiacchiera e l’altra giunge l’ora del tramonto, in riva al mare con un falò si scaldano i tamburi che serviranno a fare musica sui Dhow, grossi barconi a vela introdotti nella costa africana già nel X secolo dai mercanti arabi.
Il secondo giorno è di bassa marea il che significa che non si può nuotare ma si può osservare ciò che il mare regala: stelle marine (che ahimè qualche stupido per scattarsi fotografie si mette addosso), piccoli pesciolini, alghe, ricci, granchietti e conchiglie.
Per la gente locale è giorno di pesca, gli uomini con piccole barche tornano con ricchi bottini di svariati pesci, mentre le donne con i loro secchi pescano polpi che poi in parte andranno a vendere ai ristoranti sulla spiaggia e in parte si terranno come loro sostentamento.
Dietro al complesso di bungalows dove soggiorno, a pochi passi dalla spiaggia, dai ristoranti uno più bello dell’altro, dalle palafitte usate come terrazze apertivo/discoteche, si trova il villaggio, la vera Zanzibar.
Ti potrebbe interessare anche: Volontariato in Africa: la mia esperienza

Si passa dalla fine sabbia bianca alla polvere, dai lussuosi resort alle case di pietra dove il fuoco viene fatto con il carbone, dove l’illuminazione è debole e l’acqua potabile non c’è (ogni giorno viene il camion con la cisterna).
Quando visito il villaggio è quasi ora di cena, nella piazza principale una miriade di ragazzi giocano a pallone, nelle viuzze le donne davanti ai loro negozietti ti invitano ad entrare, in uno slargo invece altre con i loro secchi vuoti sono in attesa del camion che porta l’acqua e alcuni uomini sono riuniti davanti ad un televisore nelle loro case.
Poi ci sono i bambini, sono loro che fanno più tenerezza, alcuni seduti per terra, altri giocano rincorrendo un vecchio copertone, alcuni tirando ad una corda una bottiglietta di plastica, altri invece ballano.
A loro lascio delle caramelle e della matite colorate, che felici ringraziano e salutano con “Jambo” che in swahili significa ciao, tutti con il sorriso, impresso per sempre nel mio cuore.
Questi bambini sono costretti a stare nella polvere, non gli è consentito fare il bagno nel loro splendido mare anche se è lì a pochi passi, appena arrivano in spiaggia vengono cacciati perché danno “fastidio ai turisti”, quei turisti che forse non sapranno mai che vita c’è a pochi passi da loro, che si limitano a vedere paesaggi mozzafiato protetti dai Masai, che sono le guardie dei loro villaggi turistici.
È un modo di viaggiare anche questo ma io preferisco essere il più possibile vicino alla gente del posto in cui mi trovo perché penso che oltre alla natura fantastica che ci circonda, la vera ricchezza, il valore aggiunto, lo fanno le persone che incontriamo lungo il nostro cammino.
Io quelle facce quei sorrisi non me li dimenticherò più, hanno reso il mio viaggio unico!
Facebook: Deborah Liguori
